Il Giappone è un Paese per certi versi a noi alieno e misterioso, ma anche per questo estremamente affascinante. In Occidente l’interesse per la fruizione dei prodotti culturali provenienti dal Sol Levante è cresciuta esponenzialmente negli ultimi decenni, in particolare grazie a media quali cinema, videogiochi, animazione e manga. Quello che forse agli occhi dei più non riesce ad arrivare al pubblico di massa, se non in sporadici casi e perlopiù in nicchie di appassionati, è l’immensa quantità di folklore e leggende, dai kami agli yokai, espressione dello Shintoismo di una nazione la cui storia, in particolare quella più antica e primordiale, è spesso un misto fra realtà e leggenda.
Uno degli aspetti folkloristici più diffusi è quello relativo ai fantasmi e agli spiriti maligni, le cui storie sono alimentate da eventi e luoghi quali Aokigahara, meglio nota come la Foresta dei suicidi, spettatore e cornice di numerose tragedie e casi di cronaca nera. Tale base culturale popolare non poteva che essere la fonte d’ispirazione perfetta per il genere horror, in particolare quello cinematografico, con un filone di pellicole che è riuscito a ritagliarsi una notevole nicchia di appassionati e cultori, sia in patria che all’estero.
La serie di Zero, conosciuta in Nord America come Fatal Frame, e arrivata da noi sotto il nome di Project Zero, si è fin da subito proposta il compito di fornire un’esperienza videoludica in grado di calare il giocatore in quelle atmosfere e storie. Il buon successo della serie, le ha permesso di giungere partendo dalla PlayStation2 fino ad oggi.
L’ultimo e quinto capitolo della serie ufficiale (che può anche vantare degli spin-off), Project Zero: Maiden of Black Water, uscito originariamente nel 2014 su Wii U, ha ottenuto una remastered per tutte le console di attuale generazione. Scopriamo se è il caso di rispolverare il gusto per la fotografia.
Come già detto, la trama attinge a piene mani dal folklore e dalle leggende metropolitane. La storia ruota attorno al Monte Hikami, attorno al quale girano inquietanti racconti e misteriosi macabri eventi, e che sarà il teatro principale di tutte le vicende. Nel corso della storia si seguono alternativamente le vicende dei tre personaggi: Miu Hinasaki, una ragazza scomparsa misteriosamente dopo che si è recata alla ricerca della madre a cui è toccata la stessa sorte; Yuri Kozukata, una giovane donna in grado di percepire i morti, che in seguito allo svanimento nel nulla di Hisoka, una investigatrice dell’occulto e proprietaria di un negozio di antiquariato che la salvò da un tentato suicidio, decide d’imbarcarsi in una propria indagine personale; infine, Ren Huji, uno scritto che insieme al suo assistente è desideroso di far luce su un incubo da cui è perseguitato.
La storia, scandita da 15 missioni, vede in punti nevralgici l’intrecciarsi delle diverse linee narrative, generando un racconto dinamico e appassionante. I personaggi sono ben caratterizzati, e gli eventi, seppur cadano in volontari cliché narrativi del genere, ben si sposano con la natura dell’impianto narrativo e la tipologia di trama che vuole raccontare. Questa componente può dirsi senza ombra di dubbio riuscita in linea generale, seppur non sia esente da difetti. In particolare un problema di bilanciamento del tempo speso fra le tre storie sul totale, che va a sfavore di quella di Miu, decisamente la meno riuscita, complice lo scarso tempo a cui è stato dedicato per svilupparsi. Un altro neo è rappresentato dal modo in cui è raccontata la storia, ruolo spesso deputato ad asettici muri di testo, sia per quanto concerne gli eventi principali, che gli approfondimenti del background narrativo, scopribile rinvenendo documenti sparsi nei livelli. La problematica è amplificata in particolare per noi Italiani, la cui mancata localizzazione potrebbe rappresentare una barriera per i meno avvezzi all’inglese, nonostante questo sia grammaticalmente piuttosto basilare.
L’atmosfera da film horror asiatico è magistralmente ricostruit, e attinge furbescamente dal folklore per fornire un variegato repertorio di presenze paranormali e ambientazioni affascinanti, seppur pecchino di varietà, senza peraltro abusare dei jumpscare, puntando invece sull’inquietudine psicologica. Particolarmente presenti risultano le fobie relative alla claustrofobia e la paura di morte per annegamento.
La componente ludica di Project Zero: Maiden of Black Water, è piuttosto peculiare e unica nel suo genere. La base è quella di un qualsiasi survival horror: si esplorano quindi ambientazioni più o meno intricate nel quale è possibile rinvenire risorse limitate utili ad affrontare le diverse creature che si ritrova a fronteggiare. A difficoltà normale in realtà queste sono distribuite in quantità più che sufficiente, che insieme alla poca aggressività dei nemici determina un livello di difficoltà tarato verso il basso, mettendo in secondo piano la componente survival.
L’elemento distintivo della seria è la Camera Obscura, una macchina fotografica con il potere di esorcizzare gli spiriti. Questo nel gameplay si concretizza in un sistema di combattimento basato sul fare foto. Attraverso la pressione di un singolo tasto si passerà alla visuale in prima persona filtrata dallo strumento in questione, nella quale si potrà muovere liberamente l’inquadratura dell’obiettivo, con possibilità di ruotarla a 360° gradi. Ogni singola foto infliggerà dei danni proporzionale alla quantità di punti critici inquadrati, diversi a seconda della tipologia di creatura affrontata. Sono disponibile diversi tipi di rulli che, a fronte di una maggiore output di danno, richiederanno più tempo di ricarica.
Le in realtà rare offensive dei fantasmi potranno essere arginate in due modi: attraverso una schivata con una tempistica di reazione fornita ampia, e un contrattacco che se eseguito correttamente attiverà il Fatal Frame, una meccanica che consente la possibilità di eseguire foto in rapida successione per qualche secondo senza dover attendere il tempo di ricarica. Gli sviluppatori sono riusciti, per quanto possibile, anche ad introdurre un minimo di differenziazione fra i personaggi. Ren dispone, infatti, di un’abilità che gli consente di scattare quattro foto consecutive, ma che come contraltare aumenta in maniera non trascurabile il tempo di ricarica. Yuri e Mio invece troveranno con il progredire della storia alcune abilità attive equipaggiabili, che potranno essere usate spendendo energia spirituale accumulata a suon di foto. Non si trattano di caratteristiche in grado di cambiare radicalmente l’approccio agli scontri, ma è più che apprezzabile lo sforzo di introdurre una maggiore varietà in essi, che alla lunga sono esposti al rischio ripetitività.
La varietà delle creature che ci si trova ad affrontare è più che discreta, anche se in termini di pattern, la vera differenziazione si ritrova nei movimenti e nei punti nevralgici da fotografare. Tutto sommato, data la sua peculiarità, il sistema è abbastanza soddisfacente, e con questo concept alla base non era un’impresa affatto semplice, anche se, per via della sua stessa natura, alla lunga il tedio potrebbe prendere il sopravvento.
Il tedio è invece inevitabile nella fasi esplorative a causa della loro pessima struttura. L’esplorazione ci vede scorrazzare infatti in livelli caratterizzati da un level design a volte confusionario, con mappe in certi casi di difficile leggibilità, magagna in parte dimenticata dalla possibilità di evocare degli spiriti guida che indicano la direzione da seguire nelle sezioni che lo permettono. Ci si ritrova a fare i conti anche con un backtracking invasivo e spesso esasperante, a volte giustificato da esigenze narrative, mentre altre volte lo si sarebbe potuto eliminare o quantomeno arginare con agilità, generando la sensazione che sia stato inserito per allungare inutilmente il brodo.
Lo stesso spiacevole pensiero lo si ha in relazione agli enigmi ambientali che richiedono lo sfruttamento della macchina fotografica, idea di per sé più che buona, ma implementata male. La tipologia principale richiede di fotografare spettri visibili solo da una posizione precisa, con l’unico indizio fornito da delle fotografie da far combaciare. Fortunatamente sono posizionati in luoghi d’interesse e oggetti che risaltano particolarmente rispetto al resto, anche se ciò costringe ad un esercizio mnemonico che, se fallito, conduce ad interminabili sessioni di probabili giri a vuoto, in attesa di un’illuminazione sulla via di Damasco o alla fortuita casualità di essere giunti al luogo designato. Come se non bastasse questi sono riproposti con una certa costanza e nelle fasi avanzate spesso richiedendo la foto di bersagli multipli, dando alla luce momenti che definire tediosi e frustranti sarebbe un eufemismo.
Ad inficiare ulteriormente sulle fasi d’esplorazione è l’estrema ripetitività delle ambientazioni, non solo in termini di tipologia (prevalentemente foreste e case abbandonate), ma anche nel fatto che per più missioni sono ambientate negli stessi identici luoghi, senza peraltro particolari variazioni significative. Anche in questo caso si tratta da una scelta dettata dagli avvenimenti della storia; in generale la componente ludica si piega alle esigenze narrative e vive in funzione di essa, un problema che sarebbe stato risolvibile con una migliore progettazione a monte.
Scattando foto si accumuleranno punti, che potranno poi essere spesi per potenziare le caratteristiche della macchina fotografica, le abilità attiva, acquistare oggetti extra all’inizio di ogni missione e costumi extra per i personaggi. In questo senso risulta gradevole l’inserimento di alcune fugaci apparizioni scriptate, che permettono di guadagnare più punti in caso fossimo abbastanza celeri nel fotografarle.
Il sistema di controllo appare inizialmente caratterizzato da una certa legnosità, ma a cui si abitua abbastanza presto. Le versioni del gioco che lo consentono, a seconda della console, forniscono una versione alternativa del controllo della macchina fotografica tramite il movimento del pad stesso, ma che risulta quasi incontrollabile, seppur più immersiva.
Analizzare tecnicamente Project Zero: Maiden of Black Water, senza tenere conto della console originale di provenienza sarebbe ingiusto, dato che il Wii U era tutto fuorché un mostro di potenza tecnica.
Graficamente il titolo appare ovviamente obsoleto per l’attuale generazione a livello assoluto, ma questo va relativizzato. I modelli poligonali sono tutto sommato piacevoli alla vista, seppur siano plateali le criticità e tenendo conto del punto di partenza. Le ambientazioni non risultano scarne, nonostante quelle interne appaiano come più dettagliate delle esterne, ma senza che questa differenza risulti fastidiosa o ci sia uno stacco netto. Buono è invece l’effetto dell’acqua sui vestiti bagnati. Quel che stonano parecchio sono certe animazioni, decisamente legnose e sconnesse, e le plateali compenetrazioni poligonali.
La direzione artistica è ispirata, e riesce a creare un’atmosfera inquietante, sia per quanto concerne luoghi che gli spiriti.
Il doppiaggio è disponibile sia in lingua inglese che giapponese; il nostro consiglio è di usufruire del prodotto attraverso quest’ultimo per una maggior immersione. Dobbiamo però far notare una sincronizzazione con il labiale non sempre perfetta, ma nulla che infici la godibilità generale. La colonna sonora, gli effetti e il sound design sono perfettamente studiati e ben posizionati, contribuendo notevolmente ad innalzare la qualità dell’atmosfera.
Dal punto di vista della longevità, le 15 missioni vi terranno impegnati per circa altrettante ore; tuttavia, a volte, come accennato in precedenza, si ha l’impressione che questa quantità sia stata raggiunta aumentando artificiosamente la durata di certe parti dell’avventura e da un ritmo a volte eccessivamente diluito. Una volta terminato il titolo per la prima volta, si sbloccherà la modalità difficile, ma che offre ben pochi incentivi a ripetere l’esperienza, e una missione bonus nei panni di Ayane, una delle protagonista della serie Dead or Alive.
Project Zero: Maiden of Black Water è un titolo che riesce ad esprimere il suo spirito nipponico appieno, nel bene e nel male. La trama avvincente e l’ottima atmosfera risultano la vera colonna portante della produzione, che invece presenta luci e ombre nella componente ludica. La struttura delle missioni e dei livelli non potranno far altro che generare spesso tedio e frustrazioni, smorzate solo in parte da alcuni accorgimento e dagli scontri con gli spettri, che sono la parte più riuscita e divertente del gameplay, nonostante non sia comunque esente da difetti.
Tecnicamente la remastered eredita una dote non poi così ricca, ma riesce nel suo dovere di limare il possibile e rendere il tutto sufficientemente piacevole.
Consigliamo il gioco agli appassionati del Giappone, in particolare a quelli affascinati dal suo folklore, dai film horror e in generale a coloro che ricercano un’esperienza diversa dal solito, ma bisogna essere pronti a sobbarcarsi tutte le sue criticità.
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